UNRWA Italia: il racconto del nostro viaggio nei Territori palestinesi
Posted at 13:43h in Storie 0 CommentiUNRAW Italia ci ha regalato questo bellissimo racconto…
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Lo scorso novembre siamo andati a Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza per visitare i nostri progetti sul campo. L’UNRWA infatti assiste 5 milioni di rifugiati palestinesi in tutto il Medio Oriente garantendo servizi sociali, educazione, sanità e soccorso nei casi di emergenza umanitaria.
A Gerusalemme Est abbiamo per prima cosa visitato il campo di Shu’fat – uno dei più popolosi, ufficialmente 11.000 residenti, ma più probabilmente 18.000, e le cui strutture non tengono il passo con la crescita demografica; e una delle nostre scuole, che aprono le porte ogni giorno a 500 mila studenti: la struttura è grande, ma anche così non riesce ad accomodare tutti i bambini, che sono costretti a studiare in doppi turni, mattina e pomeriggio.
Per i piccoli rifugiati palestinesi la scuola è un’oasi di tranquillità in una situazione altrimenti estremamente difficile da sostenere: qua si vive in una condizione di ansia costante, gli episodi di violenza sono comuni, molti bambini soffrono di sindrome da stress traumatico e hanno bisogno di supporto psicosociale per imparare a gestire la paura del futuro e del presente. Abbiamo ascoltato i racconti del preside e dei professori che ci hanno accolto: molti bambini arrivano a scuola a stomaco vuoto perché le famiglie non hanno le possibilità di offrire loro più di un pasto al giorno, e la mancanza di un’alimentazione adeguata influisce anche sul loro rendimento scolastico perché non hanno abbastanza energie per apprendere.
Dopo avere salutato i bambini nelle classi, ci siamo diretti in Cisgiordania a visitare un insediamento beduino, la comunità che più risente delle conseguenze dell’occupazione: confinati in un territorio ristretto non possono più vivere dei mezzi di sussistenza originari, come l’allevamento di capre, e sono costretti all’inattività forzata. Qua le persone si sono organizzate e hanno costruito una scuola con materiali di riciclo: nonostante le condizioni di vita misere, questo esempio di grande forza di volontà ci ha molto colpito.
La mattina dopo, all’alba eravamo già in viaggio per Gaza. La Striscia si allunga per 42 km tra Israele, Egitto e Mediterraneo: in pochi km quadrati vivono 1,6 milioni di persone (la metà sono bambini), di cui due terzi palestinesi rifugiati. Una densità tra le più alte al mondo per centri abitati che si sviluppano in verticale, gli edifici cresciuti in maniera caotica uno sull’altro, i vicoli talmente stretti che bisogna cedere il passo quando si incontra qualcuno, nessuno spazio verde. Nella Striscia non entra e non esce niente e nessuno, noi abbiamo un permesso speciale, ma anche così arrivare è di per sé un’impresa: dopo gli estenuanti controlli al check point di Erez, sempre con il timore che per qualche motivo venga revocato l’accesso, ci incamminiamo finalmente per un lungo tunnel chiuso da una rete altissima accompagnati solo dall’eco dei nostri passi: tutto intorno a noi una desolante “no man’s land” e alla fine del tunnel, Gaza. Dopo un brief negli uffici dell’UNRWA sulle misure di sicurezza, molto rigide, saliamo in macchina diretti a uno dei poliambulatori che forniscono cure mediche alla popolazione, l’80% della quale vive con meno di due dollari al giorno e non potrebbe permettersi accesso sanitario in nessun altro modo. Il nostro personale sanitario è composto interamente da rifugiati palestinesi, estremamente preparati e motivati: questo garantisce la sostenibilità delle strutture e fornisce opportunità di lavoro in una situazione in cui la disoccupazione è al 46%. La struttura è piena di cartelli che illustrano in maniera semplificata e molto diretta problematiche sanitarie di base, e avvisano dei pericoli che derivano dagli ordigni inesplosi e dalle mine, purtroppo molto diffusi sul territorio.
La vita a Gaza è dura, e ci risuonano in mente le parole del caro amico Nabil Salameh, cantante e leader dei Radiodervish, rifugiato palestinese anche lui, quando la paragona a quella dei pesci in un acquario, sospesi in un quotidiano senza prospettive e senza la possibilità di immaginare un domani diverso. Nell’isolamento che la affligge dal 2005 manca tutto: l’economia è paralizzata, oramai non si produce quasi più nulla e la popolazione è allo stremo. Per molti, l’unica fonte di sussistenza sono le distribuzioni umanitarie. Visitiamo un magazzino, dove la gente fa la fila per avere le razioni alimentari composte da riso, olio, zucchero, carne in scatola. Qui è tutto necessariamente molto organizzato per poter fornire cibo a 700.000 persone.
E’ quasi buio quando torniamo in ufficio, dove ci hanno raggiunto i colleghi che lavorano in Siria per esporci e aggiornarci sulla situazione umanitaria con la quale si confrontano quotidianamente. Il conflitto che ormai sta entrando nel terzo anno, ha distrutto le vite e le forme di sussistenza di gran parte della popolazione, soprattutto quella più vulnerabile, come circa mezzo milione di rifugiati palestinesi che vi risiedono dalla diaspora del ’48 e che ora si trovano rifugiati per la seconda volta e in fuga da una situazione disperata a un’altra. Migliaia sono scappati verso la Giordania e in Libano, affollando campi già sovrappopolati dove anche per l’UNRWA diventa difficile accogliere tutti nelle strutture esistenti, mentre le notizie più recenti aprono uno spiraglio di speranza per la popolazione
del campo di Yarmouk, periferia di Damasco, dove sono rimasti 18.000 rifugiati palestinesi (erano 160.000 originariamente) che non ricevevano aiuti dallo scorso giugno a causa
dell’assedio, costretti a mangiare cibo per animali e spezie bollite nell’acqua per sopravvivere. In queste ultime settimane i convogli dell’UNRWA sono riusciti ad entrare distribuendo cibo a 4.000 famiglie, un piccolo passo, ma che fa la differenza per tutti quei bambini affetti da anemia, rachitismo e altre malattie dovute alla carenza di nutrienti di base.
Dalla nostra visita torniamo cariche di motivazione a portare avanti il nostro lavoro quotidiano, memori della grande dignità – seppure nella sofferenza – delle donne e degli uomini che abbiamo potuto incrociare, con il cuore stretto dagli sguardi dei bambini nelle strade e nelle classi, certe che anche dall’Italia con i nostri amici donatori possiamo fare qualcosa di concreto per aiutare la popolazione che soffre, e che ogni sforzo, per quanto possa sembrare piccolo, è fondamentale perché attraverso di noi arriva direttamente alle persone che più ne hanno bisogno.
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