
Era una mattina d’estate come tante. Mi stavo vestendo, quando notai sulla mia spalla destra un piccolo rigonfiamento, una pallina di pochi millimetri. Nessun colore, nessun dolore. Non ci feci più caso di tanto. Si sa, il corpo cambia. Nuovi nei, nuove macchie, piccole increspature della pelle … Arrivò il mese di agosto. Tra gli amici con cui ero in vacanza c’era anche un medico chirurgo con cui avevo confidenza. Gli chiesi di guardarmi la schiena e soprattutto questo “coso” nuovo che era anche un po’ cresciuto nel frattempo. Lui guarda, tocca il punto esatto e mi rassicura. È una piccola ciste, mi dice. Niente di che. Si toglie e fine. Correva l’anno 2020. Il COVID aveva mietuto migliaia di vittime. Eravamo reduci tutti da mesi terribili. Sfiniti. Stanchi delle brutte notizie. Solo fiduciosi che la vita riprendesse nella sua straordinaria normalità di un tempo. Gli ospedali però erano ancora in allarme. Le misure di sicurezza sempre alte. Riuscii a ottenere una visita specialistica ad un Tempio Supremo delle malattie della pelle. Era fine settembre, mi visitò un professore spocchioso e molto sicuro di sé. Trattandomi con tono di sufficienza mi confermò trattarsi di ciste sebacea, un piccolo cumulo di grasso. Mi disse che le liste d’attesa per l’asportazione erano lunghe: gennaio, febbraio probabilmente sarebbero intervenuti. Se avessi voluto però togliermi il pensiero subito, lui era disponibile, in privato. Non apprezzai affatto il modo subdolo e scorretto di porre la cosa, in un ospedale pubblico poi! Lo liquidai chiedendo di essere messa in lista. Salutai freddamente e andai via. I mesi passavano e il “coso” cresceva. A dicembre era un bozzo grande circa 4 centimetri, rosato e un po’ dolorante. Era fastidioso poggiare la schiena, persino sul divano. Il mio medico curante mi visitò nuovamente. Avevo grande fiducia in lui. Medico di famiglia da sempre, lungimirante e preparato. Appurò che effettivamente in pochi mesi si era ingrandito tanto quel bozzo. Lo palpò a lungo e ricordo che provai un dolore acuto e persistente finché lo toccava. Lui comunque sorrise e confermò trattarsi di ciste sebacea, mi esortò alla pazienza. Durante dicembre il fastidio era aumentato. Telefonai al mio amico chirurgo facendo la cronistoria di quei mesi e chiedendogli molto esplicitamente … aiuto! Che fosse in ospedale o privatamente poco importava. Non volevo più quella palla sulla schiena. Lui mi disse che ancora le sale operatorie erano chiuse per gestire le rianimazioni COVID ma promise che appena avesse avuto disponibilità, mi avrebbe chiamata. Il 28 dicembre squillò il telefono e il chirurgo mi disse che avrebbe potuto togliermi quel “coso” il 7 gennaio, primo giorno di riapertura sale. Ancora solo qualche giorno di attesa.
Il mio Capodanno di quell’anno lo ricordo vivamente. Mia madre a casa con noi in maniera stabile già dall’inizio della pandemia. Qualcosa mi diceva che probabilmente sarebbe stato l’ultimo Capodanno insieme. Lei era al terzo stadio di un tumore al polmone e aveva problemi anche cardiaci conclamati da tempo. Fu una serata venata da una malinconia dettata dalla consapevolezza dello stato delle cose. Allo stesso tempo, però, godemmo del piacere sempre immenso di stare insieme. La lucida oggettività a volte, necessariamente, la teniamo a bada distraendoci con altro. Dunque, si chiacchierava, si mangiava e si rideva con grande entusiasmo. Lei però era preoccupata per me. La magia della leggerezza si ruppe per qualche istante quando lei ad un certo punto disse: “Non mi piace. Quella cosa che hai sulla spalla non mi piace affatto”. La nostra famiglia è stata decimata dai tumori e lei – donna sensibile e intelligente – aveva la diagnosi in testa prima di qualsiasi medico che m’avesse visitata. La notte comunque passò tra brindisi e abbracci, sorrisi e giochi. Così come la settimana seguente. Volevo che fossero, per lei, per le mie figlie e per me, giorni lieti e piacevoli, un intervallo di vita serena tra le sue pesanti chemio e l’angoscia continua per analisi e visite frequenti.
Arrivò il giorno 7. Il “coso” sarebbe stato estirpato! Uscii di casa presto, ero sola ma tranquilla. Puntuale anche il chirurgo. Feci l’accettazione per procedere al piccolo intervento. L’anestesia fu locale, chiacchieravamo amichevolmente mentre asportava quell’intruso. Ci mise più tempo del previsto e fu necessario molto più anestetico di quanto fosse prassi. Mentre alla fine mi metteva i punti disse che avrebbe mandato il materiale all’istologico, perché si avesse l’esatta analisi delle cellule asportate. Fu sincero e aggiunse che quanto aveva tolto non si era comportato come la classica ciste. Voleva vederci chiaro, qualcosa non gli tornava.
Io comunque tornai a dedicarmi anima e corpo a mia mamma. Le stavo accanto ogni secondo. Un accudimento continuo nei bisogni e negli svaghi. Avevamo un rapporto di straordinaria empatia. Era non solo mia madre, era una sorella grande, una confidente importante, un riferimento fondamentale, la mia guida e il mio conforto. Era la persona con cui più ridevo e con cui potevo esser anche seria e sincera. Avevo solo lei nel mondo adulto. Nessun altro parente … grande. E con lei tutto era bello. Ci piaceva evadere dal mondo e dalle responsabilità guardando film continuamente, per poi raccontarci pensieri ed emozioni. Ci scambiavamo consigli e libri. Facevamo spese a braccetto, vicine e allegre. Felici di stare insieme, di darsi e di viversi.
Arrivò il giorno 18 gennaio. Dovevo andare a togliere ancora dei punti che non avevano potuto eliminare la settimana precedente. La sera prima mia madre aveva fatto uno sforzo forte con delle scale e si era sentita poco bene, era molto debole. Io ero piuttosto preoccupata. Lasciai mia figlia quindicenne a casa raccomandandole di stare vicina alla nonna e di aiutarla in tutto. Io sarei tornata in un paio d’ore. Mentre stavo guidando sulla strada del ritorno, il telefono squillò. Mia figlia in preda al panico e con la voce rotta dal pianto mi comunicò che la nonna era in terra dopo un malore. È sveglia, mi disse, ma sta molto male. Corri! Corri! Aggiunse. Io entrai in uno stato d’angoscia profonda, corsi più che potevo, abbandonai la macchina quasi a caso e salii a casa con il terrore di trovarla senza vita. Invece ancora era lì a terra. In attesa dell’ambulanza, parlammo stese in terra vicine e lei mi disse: “Figlia mia, questa volta è la fine”. Così fu. Poche ore dopo morì in ospedale, per mano a me, che feci fuoco e fiamme per non lasciarla sola al capezzale. L’ultimo infarto era stato troppo grave per provare qualunque operazione. Impossibile raccontare il mio stato d’animo nei primi giorni di lutto. Fu in quei giorni scuri, esattamente il giorno del mio compleanno, peraltro, che chiamò il mio amico chirurgo con la terribile notizia: ho l’esito dell’istologico, disse. È un tumore raro, un sarcoma!
Mi svegliai dall’incubo di mamma per sprofondare in un nuovo incubo che riguardava me: ho un tumore anch’io.
Seguirono giorni convulsi tra risonanze magnetiche, tac ed ecografie. Sembrava che l’unico posto dove capissero qualcosa dei sarcomi fosse all’Istituto dei Tumori di Milano nella persona del Dott. Alessandro Gronchi. Mandai tutte le analisi alla segreteria preposta. In tempo reale ebbi risposta: per motivi logistici e per velocizzare i tempi avrei dovuto rivolgermi al Campus Bio-Medico di Roma, nello specifico al Dott. Sergio Valeri, il chirurgo che mi garantirono avrebbe potuto prendermi in cura. Ero disperata, disorientata, scettica. Fissavo quel numero di telefono del Dott. Valeri a piè di pagina della mail e non avevo forza né coraggio, ero inerme. Poi mi feci violenza appellandomi ad un fatalismo inevitabile e chiamai. Rispose subito. Valeri fu sbrigativo, ma concreto. Mi avrebbe visitato l’indomani. Avevo paura, paura dell’intervento, paura di morire e di lasciare le mie bambine … La diagnosi era chiara Dermato Fibro Sarcoma Pretuberans (DFSP). Un tumore aggressivo e invasivo. Valeri non fu certo incoraggiante. Mi fece capire senza tanti giri di parole che era un’incognita, come ogni tumore, e che per certo bisognava operare urgentemente. Aggiunse che probabilmente sarei rimasta offesa al braccio. L’operazione era prevista per il 5 marzo 2021. Mentre scendevo in sala operatoria e stavo spegnendo il cellulare, ricevetti una telefonata. L’ospedale dermatologico che mi aveva visitato sei mesi prima mi comunicava che era arrivato il mio turno della lista d’attesa per togliere la … ciste sebacea! Ricordo che li aggredii con fiumi di insulti sulla loro incapacità e incompetenza. Li minacciai addirittura di denuncia. La segretaria rimase basita e imbarazzata. Scusandosi a nome dell’ospedale, attaccò. Rimasi sconvolta dalla coincidenza incredibile di aver ricevuto quella chiamata proprio in quel preciso momento! Era assurdo! Piansi a dirotto sfogando mesi di stress e tensioni e per espiare, probabilmente, il terrore dell’operazione importante che avrei dovuto di lì a poco affrontare. Poi scesi in sala operatoria e fortunatamente ritrovai dei visi familiari. Apprezzai la grazia e la gentilezza dell’anestesista, un uomo molto giovane, sicuro di sé e tanto accogliente. Fu importante quel clima per ritrovare uno stato di quiete emotiva che poi l’anestesia aiutò fino a portarmi al sonno profondo.
Il risveglio fu strano. Ricordo che aprendo gli occhi il primo pensiero fu di capire quali parti del corpo rispondessero. Fu una sorpresa percepire che ero “tutta” e che mi sentivo abbastanza bene, a parte la sensazione di stordimento post anestesia. Di lì a poco entrò una dottoressa col suo codazzo di allievi attenti ad immagazzinare esperienze senza perdere nulla. In verità pensavo di vedere il mio chirurgo Dottor Valeri e rimasi un po’ male, ammetto. La dottoressa, anzi più correttamente, la Professoressa Rossana Alloni mi si avvicinò sorridendo. Mi piacque quel modo familiare di approcciare un paziente impaurito e spaesato. Mi spiegò che l’operazione era andata bene. Che mi avevano dovuto asportare diverse parti di muscoli da rotondo piccolo, rotondo grande, trapezio e deltoide. Per colmare lo spazio di quanto asportato, si era reso necessario un trapianto muscolare. Poi il chirurgo estetico aveva concluso l’opera chiudendo il tutto come un raffinato sarto. Immagino che la Professoressa avesse notato l’orrore nei miei occhi dopo quella descrizione. Il sorriso morbido si accentuò e tenendomi la mano, affettuosamente ancora e mi disse: “È andata bene, stia tranquilla!” Ecco! Quel momento, quel preciso istante, grazie a lei, a quei gesti e a quelle parole, la fiducia e la speranza tornarono a scaldarmi il cuore.
Dopo un mese di difficile gestione di quella grandissima cicatrice, tra medicazioni continue e drenaggi da gestire, arrivò il tempo della riabilitazione della spalla. Trovai grande professionalità anche al Don Gnocchi di Roma. La Dottoressa Irene Aprile, Direttore del Dipartimento di riabilitazione, mi assegnò un giovane, bravissimo fisioterapista. Tre mesi di gioie e dolori, sacrifici e determinazione, ma alla fine i risultati sono stati eccellenti. Il mio braccio aveva recuperato forza e capacità di rotazione. Ricordo che mi commossi per l’emozione di riprendere in mano la racchetta da tennis, gli ultimi giorni di terapia. Marco, il fisioterapista, me l’aveva promesso: “Tornerai a giocare!” Non gli avevo creduto affatto. E invece …
Finalmente l’estate. Cercavo di distrarmi e non pensare a quei mesi orrendi. Quando un giorno mi chiama il Dottor Valeri e lì per lì mi si gela il sangue. Rispondo preoccupata per la mia salute – un chirurgo che ti chiama all’improvviso sul cellulare non lascia bene sperare! – ma lui mi tranquillizza subito e mi dice che avrebbe un progetto di Associazione di cui sta parlando a tutti i suoi pazienti. Mi raccontò a grandi linee la cosa: un’associazione che lavori sulla prevenzione del sarcoma, che supporti i pazienti in tutte le esigenze, un progetto di ricerca scientifica per le cure … Io mi entusiasmai immediatamente e cominciai a sciorinare le tante possibilità di sviluppo e gli eventi fattibili per promuovere e far crescere questo tipo di progetto. Era peraltro l’ambito del mio lavoro da tanti anni e quell’idea mi piacque subito, tanto! Devo essere stata convincente e contagiosa perché mi chiese di vedersi al Campus e parlarne in maniera più articolata. Non fu facile concretizzare il tutto. Passò qualche mese, ma alla fine demmo alla luce “SARKNOS: Associazione di pazienti sarcomi dei tessuti molli”. Valeri mi chiese di essere addirittura il Presidente! Un onore che inizialmente mi creò dubbi e perplessità. I timori poi di non essere all’altezza dei compiti complessi che questa figura prevede, erano tanti. Stavo declinando l’invito, ma la determinazione di Sergio è stata forte ed oggi, da un anno e mezzo siamo, con altri componenti del direttivo, questo bellissimo gruppo. Abbiamo fatto diversi eventi, la ricerca sul sarcoma sta avendo possibilità prima impensabili, lavoriamo sull’informazione ai pazienti e per guidarli in ogni fase di questo difficile percorso. Siamo solo all’inizio, ma abbiamo già buttato i semi per veder crescere un bel prato verde su cui veder passeggiare più sereni i pazienti. Io ne sono felice
Settembre 2023
Marina Antonucci, Presidente SarkNos
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