Sono una volontaria, mi trovo nel campo di profughi siriani di Diavata, lontano dal centro di Salonicco, in Grecia. Lontano dagli occhi dei cittadini e dai microfoni della stampa. Qui è più facile nascondere la vergogna d’Europa, è più facile essere dimenticati. 

Mi parla il coordinatore di noi volontari:

“Tu sei qui per portare un po’ di bellezza, per restituire un po’ di dignità e per regalare un po’ di felicità”.

Ho dormito poco la notte scorsa. Perché ho passato gran parte del mio tempo a immaginare come fare per portare bellezza, felicità e dignità: non ero mai stata accerchiata da tanta disperazione in vita mia, credo mi risulterebbe più semplice portare oro, incenso e mirra.

Per la prima volta da quando sono qui sento fortissima la nostalgia di casa. Del mio mondo, di quel mondo che in qualche modo ci protegge sempre. 

La maggior parte di loro sono donne e bambini. Hanno lo sguardo dolce ma evanescente al tempo stesso, perché il campo non è casa. Non è il loro mondo. Sembrano alieni che si muovono ciondoloni su di un pianeta che non è il loro.

Ma dove ne trovo di bellezza, di dignità e di felicità?

La bellezza è la loro. Addirittura disarmante, nonostante l’abbigliamento poco curato e le scarpe logore. Nonostante le piaghe di un uomo che per arrivare fino a qui, dalla Turchia, ha camminato ventidue ore. La dignità è nel loro sguardo che incrocia il mio. «Thank you». Mi ringraziano per un cuscino. 

«Thank you for the pillow». Un cuscino. Grazie per il cuscino.

La noia a Diavata è pericolosamente tanta.

La noia è una brutta bestia per chi vive in un campo. Perché se non sai cosa fare l’unica possibilità è pensare. Ma i pensieri portano lontano e non sempre dove si vorrebbe andare.

La noia diventa inedia. E il passo per trasformarsi in depressione è maledettamente corto. Ti distrai un attimo e ci sei piombato dentro. E uscirne è difficile come uscire dal campo. Anche quando la noia non diventa depressione riesce comunque ad ammazzare la fantasia. E senza fantasia, come te li inventi i sogni, anche se hai tanto tempo per dormire?

 Ognuno di loro porta le cicatrici di una vita interrotta dalla fuga disperata. Chi ha schegge nelle gambe. Chi, dopo aver passato molte ore inginocchiato sul barcone che l’ha portato alle coste greche, infiammazioni alla guaina a livello del ginocchio.

Il personale sanitario volontario ha curato le infezioni, che sono all’ordine del giorno, le ferite andrebbero pulite una volta ogni 24 ore, non è semplice seguire tutti.

Io ho distribuito vestiario, verdura, cuscini e acquistato in loco qualche altro bene primario, grazie alle offerte di alcuni donatori.

 Per molti di loro è un’ennesima terribile esperienza, dopo aver vissuto per mesi o spesso anni sotto la guerra ed essere sopravvissuti ai pericoli del viaggio verso l’Europa. Molti hanno perso ogni speranza.

Cosa sostiene queste persone da dentro quando tutto il resto viene a mancare? 

 Stiamo sistemando una tenda per dei nuovi arrivati al campo, quando si avvicina timidamente un ragazzo e ci indica la sua di tenda. 

 Un materassino a terra, una coperta, il pavimento spoglio e sporco, uno zainetto con i suoi pochi averi. La vergogna nel suo volto. 

 Chiede se è possibile avere un allaccio alla corrente e una lampadina per non mangiare gli scarsi pasti distribuiti dall’esercito al buio la sera. La vergogna nel mio volto. 

Quanto vale una vita? 

Siete d’accordo con me se dico che la vita di un uomo vale ogni sforzo? 

Soprattutto se debole, in bilico, fragile.

Questo spera un uomo da un altro: che la sua vita valga ogni sforzo.

Noi cerchiamo di farlo, insieme a tutti i nostri volontari, da settembre 2016.

Non dimenticatevi dei campi e di queste persone, siate testimoni di quest’era.

Venite a vedere, toccare.

 Dante Alighieri scriveva: “Uomini siate, e non pecore matte

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