A.I.M.A. Milano un’associazione che nasce con lo scopo di accompagnare e sostenere i familiari dei malati di Alzheimer ci racconta la propria storia e il bellissimo progetto “Alzheimer Cafè”. Per sostenere le sue attività offrile un caffè su www.1caffe.org
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Alzheimer… con questo termine, ho scoperto, è possibile definire tutto e niente. Tutto, perché bene o male ognuno di noi ha un’idea di cosa si stia parlando: malati di Alzheimer, contesto di aiuto, operatori (si spera) qualificati, eccetera. Niente, perché per quanto riguarda il nostro Paese tutto ciò che ruota intorno a questa malattia assume una connotazione precisa solo in base alle finalità perseguite dalla singola associazione o ente che se ne occupa.
Da qui nasce l’idea del progetto Alzheimer Cafè: un momento dove malati e familiari partecipano insieme, oppure separati, o addirittura dove i familiari sono assenti, se non per accompagnare i loro anziani. Alzheimer Cafè dove le attività spaziano dalla formazione all’auto aiuto, al gioco, alla riabilitazione cognitiva o alla teatro-terapia.
L’impostazione che ho scelto dei nostri Alzheimer Cafè, peraltro in maniera del tutto non voluta, è quella di permettere ai malati di insegnarci qualcosa. Di dar loro la possibilità di essere le nostre guide in un mondo che, per troppe capacità cognitive possedute, non comprendiamo e anzi rigettiamo.
Ho sentito spesso molti psicologi usare la metafora dello “indossare un diverso paio di occhiali per mettersi nei panni di…”. Usare delle lenti che colorino il mondo in un diverso modo, il modo in cui il tal paziente vede il SUO mondo. In questo modo posso comprenderne i valori, le motivazioni, i sentimenti. Un’ottima metafora, che io stesso ho usato in diversi contesti formativi ma che ho personalmente trovato poco utile se applicata al mondo della demenza. Se, per esempio, il domandarsi perché questi malati agiscono in un certo modo è fondamentale per comprendere alcuni nostri errori di comportamento o alcuni aspetti negativi che l’ambiente, in cui la persona vive, può presentare, ecco però che diventa inutile se vogliamo cercare il senso esistenziale della malattia, che è quello che maggiormente intacca la relazione familiare.
Non c’è un “perché” più alto; non esistono risposte che soddisfino le nostre Domande con la D maiuscola. E se non ci sono risposte, quelle stesse domande non possono che trattenerci in un vortice di incertezza che ci distrae da ciò che, seppur poco, ci rimane e di cui possiamo godere.
Ho cominciato a comprendere questo fatto quando ho deciso di togliermi quegli occhiali: all’inizio della mia esperienza ne ho indossati di diversi colori, ma ho costantemente fallito nel portare a casa qualcosa che mi facesse sentire bene, che mi facesse dire “oggi è stato fatto un passo avanti”.
Togliermi gli occhiali ha significato, per me, smettere di farmi domande sul perché o per come, e cominciare a essere spontaneo. Ho deciso che da operatore competente quale (in teoria) ero, volevo provare a essere folle tanto quanto i malati che avevo davanti.
Ho provato a rispondere a tono ai discorsi sconclusionati di Bruna, a interessarmi della vita dei figli mai avuti di Franca, a rispondere alle pernacchie di Mario o a fare il verso del maiale più forte di lui perché “così vediamo se mi superi”.
E così facendo ho provato un’emozione che mai avrei associato a un contesto di malattia di Alzheimer: la gioia. La gioia senza ragioni. La gioia di stare insieme senza un perché, ma solo perché è bello, ed è bello così come ci viene.
Quello è stato il passo avanti per me. Lì ho potuto godere di quello che prima era “il poco che rimane”, nemmeno degno di nota perché oscurato dal cappio della malattia, e che è poi diventato il “tanto che ci fa stare bene” nel tempo passato insieme.
Per citare un’altra metafora che uso spesso coi familiari, ho afferrato la mano del malato lasciando che fosse lui a portarmi in giro. E, come dicevo, forse ha funzionato perché è avvenuto così, senza che fosse voluto o ragionato.
Ciò che mi ha stupito in seguito è stato però osservare le persone intorno a me. In quasi tutti i familiari che ho incontrato ho notato inizialmente scetticismo, per non dire un serio dubbio che io stesso non fossi uno psicopatico infiltrato all’incontro; in molti, però, ho visto col tempo il cambiamento.
Ho visto più sorrisi, più interazione col malato; ho visto meno “figli-badanti” o “coniugi-badanti”, e più figli-e-basta e coniugi-e-basta.
Ho visto persone lasciarsi andare seguendo un esempio.
Ho sentito persone dirmi che, da quando frequentano l’Alzheimer Cafè, si arrabbiano di meno per i deliri del loro familiare o escono di più insieme anziché stare chiusi in casa. Ho ascoltato persone ringraziarmi perché era da tempo che non riuscivano più a ridere stando insieme al loro papà o alla loro moglie.
Ho visto figli esultare più dei genitori malati per aver vinto il concorso “disegna la maschera di Carnevale più bella”, e coniugi fare i pazzi più dei loro mariti o mogli malati dirmi frasi come “mi diverto più io di lui”.
Ho visto anche tante persone arrivare al loro primo incontro, per poi non rivederle più.
Ho visto familiari provare a venire per più incontri, senza però mai riuscire a perdere quello sguardo scettico iniziale, per poi non rivederli mai più.
Sono sicuro che molti di loro avranno pensato che siamo dei pazzi a ridere di certe cose, e magari qualcuno si sarà anche sentito offeso dal modo in cui affrontiamo alcuni comportamenti, senza “prenderli troppo sul serio”.
Purtroppo togliersi quegli occhiali è uno sforzo immane, e non tutti sono in grado di farcela.
Sono però lieto che la maggior parte, con sforzi più o meno grandi, in parte se non del tutto, spesso ce la fa. E i sorrisi che mi portano, quelli sono il mio passo avanti.
Per concludere, cosa facciamo all’Alzheimer Cafè di AIMA? Io rispondo per me: faccio il malato di Alzheimer. Seriamente.
Marco Gatti
Operatore Alzheimer Cafè A.I.M.A Milano Onlus
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