“Spesso sentiamo parlare dei problemi del terzo mondo, dell’Africa, dell’infanzia negata, sentiamo parlare delle adozioni a distanza, di aiuti umanitari, di migranti e rifugiati, di barconi che portano il loro carico di vita, speranza e morte. Ma rimangono il più delle volte “problemi lontani” mille miglia dal nostro vivere quotidiano.

L’Africa ci chiamava da anni ma non avevamo ancora avuto il coraggio di affrontarla.

Ujamaa Onlus è nata così dall’incontro di due donne, in un momento particolare della loro vita, ed è nata con il desiderio di realizzare un sogno pur tra mille titubanze e paure. Grazie alla nascita dell’Associazione abbiamo potuto toccare con mano cosa

vuol dire occuparci dei bambini, abbiamo avuto l’opportunità di vedere nei loro occhi la gioia di vivere nonostante tutto, di vedere le loro manine tese sempre in cerca di qualcosa, una caramella, una carezza o di un semplice sorriso.

Il primo viaggio in Senegal è stato fondamentale. Un viaggio non solo alla scoperta dell’Africa, dei suoi territori sconfinati, dei suoi colori e dei suoi odori ma anche un viaggio alla scoperta di noi stesse. L’impatto è stato incredibile. L’arrivo all’aeroporto nella notte buia tra la confusione del vociare in una lingua sconosciuta, il wolof, e le mille luci, la confusione di chi parte e chi ritorna dall’Europa, la strada sabbiosa anche nella grande città dove ci stupivamo di trovare a terra le conchiglie, i lunghi viaggi in auto per raggiungere i vari villaggi. Ed è stato proprio viaggiando di giorno che abbiamo avuto la possibilità di vedere, i bambini, i tanti bambini per strada da soli o in piccoli gruppi.

Bambini con le manine sporche che si infilavano nei finestrini, bambini che correvano dietro la macchina con il rischio di farsi male, bambini che cantilenavano sempre lo stesso ritornello “Toubab, toubab”, donne bianche, incuriositi dai nostri capelli e dalla nostra pelle, bambini lungo le strade con i loro contenitori sporchi, che dormivano lungo i marciapiedi o percorrevano ore e ore sotto il sole cocente.

Abbiamo scoperto così l’esistenza dei Talibes. La nostra guida Abdou ci ha raccontato chi erano i piccoli studenti delle Daare, le scuole coraniche del Senegal, bambini dai 5 ai 13 anni, affidati dalle famiglie povere ai Marabut, i maestri che insegnano il Corano

e i precetti dell’Islam. Questi piccoli sono spesso provenienti da villaggi lontanissimi, non potendo i genitori mantenerli. Una volta affidati al marabut, questi non potendo assicurare loro il pasto quotidiano, finisce per lasciarli in strada in cerca di cibo e in stato totale di abbandono. Nell’immaginario popolare si dice che un bambino che impara a memoria tutti i versetti del Corano sarà un ragazzo dotato. Tuttavia, e spesso malgrado la volontà dei maestri coranici, le daaras soffrono di mancanza di salubrità e di strutture adeguate e molti bambini vengono maltrattati o subiscono violenze.

E sono iniziate così le mille domande. Ci siamo chieste come potevano essere tutti così indifferenti verso questi bambini costretti ad elemosinare cibo e attenzioni per strada

durante il giorno per ore, spesso in condizioni igieniche e di salute precarie. Ci siamo chieste come poteva un bambino avere paura di una carezza o di un abbraccio? Ci siamo chieste se fosse giusto tentare di cambiare tradizioni secolari.

E abbiamo iniziato a documentarci sui bambini Talibes, a leggere le loro storie, a comprender perché molti li definivano Bambini fantasma, ovvero bambini di cui nessuno si prende cura, che si azzuffano per un tozzo di pane, quando porgi loro del cibo, perché hanno fame, e la fame è una delle cose più brutte da sopportare. E alla fine ci siamo date una risposta, cambiare una tradizione secolare sicuramente non era possibile ma provare ad offrire delle condizioni di vita migliori certamente si.

Ed è proprio per questo motivo che abbiamo deciso di creare una casa che potesse

accogliere i bambini di strada. Con la politica dei piccoli passi è nata la “Maison Darou Salam”, nel villaggio di Mbacke, a pochi km dalla capitale religiosa del Senegal, la città sacra di Touba. Per noi semplicemente la nostra “Casa Ujamaa”, dall’insolito colore rosa e dal cortile dai mille colori.

Grazie a tanti amici abbiamo realizzato la fossa biologica, la tettoria esterna per riparare i bambini dal sole cocente. Ma non volevamo e non potevamo fermarci! Un nuovo obiettivo ci siamo prefisse, quello di realizzare una mensa per offrire pasti adeguati ai bambini ospitati e a quelli che si fermeranno durante il loro girovagare. Per i piccoli talibè anche l’alimentazione rappresenta un bel problema, l’alimentazione si limita infatti a riso ed un po’ di carne, se si è fortunati! La nostra casa di accoglienza infatti non ha una vera cucina, chi si occupa di cucinare lo fa nella sabbia, accendendo un semplice fuoco. E a dire la verità lo abbiamo dovuto fare anche noi e non è stato per nulla una cosa semplice!

Forse una piccola goccia nel mare per una piaga sociale così grande, forse i nostri piccoli progetti non rappresentano un grande cambiamento, ma per noi responsabili di una piccola associazione sono un altro piccolo passo verso un modo migliore di vivere. Noi vorremmo farne altri cento di piccoli passi! Perchè ogni volta che varchiamo la porta della nostra “Casa Ujamaa” difficilmente siamo riuscite a ritornare a casa senza provare nostalgia o a versare una lacrima…”

Rita e Valentina

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